Quando Euripide mise in scena «Le troiane», la più antimilitarista delle sue tragedie, nel 415 a. C., erano passati solo pochi mesi dal terribile sacco di Melo, l'isola punita da un orrendo massacro per aver rifiutato la dominazione di Atene. Per rappresentare al pubblico ateniese tutta l'ingiustizia e l'orrore di quell'evento, Euripide aveva scelto la lontana guerra di Troia, adottando il punto di vista dei vinti (come Eschilo con I Persiani) e utilizzando il mito come nodo problematico.
Ora, «Le troiane» nell'adattamento dei registi russi Valery Fokin e Nikolay Roshchin (con la traduzione di Monica Centanni), in scena nella cornice suggestiva del Parco archeologico di Pausilypon per il Napoli Teatro Festival Italia, presenta un'operazione di segno diametralmente opposto.
Qui, infatti, il mito è utilizzato come mero pretesto per una rappresentazione della guerra, della violenza e della relazione vittima-carnefice tutta schiacciata sull'attualità. Ad accogliere gli spettatori ci sono fila di cadaveri disposti per terra in sacchi neri, piantonati da soldati in tute nere e armati. Sulla scena, l'accampamento greco è trasformato in un'enorme tavolata dove le prigioniere troiane saranno costrette a brindare con i loro aguzzini achei, guidati da un Taltibio-gerarca nazista (Leandro Amato) e un Menelao assetato di vendetta (Antonio Marfella), in un contesto che ricorda il «Salò» di Pasolini.
Tutto ciò che avviene sulla scena (e fuori scena) viene inoltre ripreso in tempo reale da un soldato-cameraman, a sottolineare la mediaticità della guerra moderna. Ma quello che da Jean-Paul Sartre era considerato un oratorio più che una tragedia, e che di fatto è una prolungata, solenne trenodia, nell'allestimento prodotto dal Festival e dal Teatro Stabile di Napoli, con la collaborazione dell' Alexandrinsky di San Pietroburgo, diventa invece un assemblaggio eterogeneo di elementi (cabaret brechtiano, teatro-danza, avanspettacolo, reportage di guerra, musical), che faticano a trovare una loro coerenza rispetto a un testo che va smarrendosi nelle non poche forzature kitsch e nei vezzi «autoriali» della scrittura scenica.
Così la generosa interpretazione di Angela Pagano-Ecuba, l'intensità tragica di Giovanna Di Rauso-Andromaca e l'impegno di tutte le altre «troiane» - spesso esagitate - non bastano a salvare uno spettacolo sempre sopra le righe e tutto spinto sul registro di un grottesco che finisce per rendere le atrocità della guerra attuale più lontane e irreali di quella troiana.
Fabrizio Coscia - Il Mattino