La forza del teatro, della scrittura e della cultura contro la guerra che sta radendo al suolo le loro città e decimando il loro popolo. Mohammad Al Attar (nella foto) e Omar Abusaada sono due giovani artisti siriani, in prima linea contro il regime di Assad, che domani e lunedì saranno al Bellini per il Napoli Teatro Festival con «Mentre aspettavo».
Si parla di Taim, giovane artista siriano, che viene picchiato selvaggiamente in circostanze misteriose dopo aver attraversato un check point a Damasco. Le percosse sono talmente violente che finisce in coma. E il coma di Taim è metaforicamente quello del loro Paese, distrutto, frantumato dalla guerra intestina e dagli eccidi del regime.
Entrambi sono al debutto in Italia e combattono ogni giorno per la propria terra. «Che non è né viva né morta, ma in una zona grigia di speranza e disperazione», spiega il regista Omar Abusaada che per anni ha viaggiato nelle zone di frontiera di Siria, Egitto e Yemen portando i suoi spettacoli in piccoli paesi e utilizzando il teatro come strumento di dialogo con gli abitanti, talvolta invitati a unirsi agli attori sulla scena.
Il lavoro è prodotto dalla Fondazione Campana dei Festival e dopo Napoli sarà ad Avignone e poi in altri numerosi festival europei.
Nel cast solo attori mediorientali e siriani, una pièce recitata in arabo con sottotitoli in italiano. «Ho provato a raccontare, ispirandomi liberamente a fatti reali, cosa accade nel mio Paese dal punto di osservazione di un uomo in coma, che vede intorno a se affollarsi familiari, amici: è un'attesa straziante che rivela l'intimità di una famiglia intorno Taim. Lui, anche se il suo corpo è immobile, in realtà vaga per la stanza e osserva tutti da varie prospettive», commenta l'autore Mohammad Al Attar.
«Gli eventi si svolgono a Damasco. Il padre è morto e al capezzale ci sono la madre, la sorella rientrata subito da Beirut, la fidanzata, il fedele amico. E ogni visita in ospedale è un'occasione di confronti, di rivelazioni dolorose e di ritratti dalla società siriana di oggi», prosegue Al Attar.La sua vita è una vita da girovago: nato e cresciuto a Damasco, ha anche studiato a Londra, ha vissuto a Beirut e Berlino.
Uno dei sui lavori precedenti, «La prego di guardare in macchina», si basa sugli interrogatori ai siriani arrestati durante le proteste in strada. «All'inizio della rivolta mi ero totalmente staccato dalla scrittura perché mi sembrava fuori luogo, un atto di lusso in un momento in cui la gente moriva nelle piazze. Ero ossessionato, partecipavo direttamente alle proteste e all'attivismo. Poi mi fu commissionato di scrivere una commedia, che si basava su un articolo uscito dopo la caduta di Mubarak in Egitto. E ho capito che la scrittura poteva essere un contributo e non era codardia. Tutti noi abbiamo diversi strumenti, e la scrittura è il mio», continua Al Attar.Quindi, la scrittura come parte necessaria della protesta.
«Un altro motivo per cui ho voluto scrivere e raccontare è legato al fatto che i miei connazionali erano amareggiati dal fatto che molti intellettuali siriani avevano paura di parlare o di criticare ciò che il regime stava facendo. Ognuno ha le proprie ragioni e rispetto le scelte. Dicevano di essere sotto shock o che si trattava di una rivoluzione giovanile che esigeva strumenti diversi come internet. Io credo invece che il teatro è uno dei metodi per osservare da lontano che cosa sta succedendo a noi. Anche se siamo solo piccoli pezzi di un grande puzzle, è un mezzo di sopravvivenza».
Stefano Prestisimone - Il Mattino