A chi si chiedeva come Robert Glasper possa portare in giro i materiali dei suoi due acclamati dischi della sere «Blackradio» senza il profluvio di vocalist e rapper impiegati il concerto ha risposto senza tema di smentite: magnificamente bene.
Non che «Let it ride» non si sarebbe vestita di altro se corredata della voce di miele e velluto di Norah Jones o che il flow di Common e Patrick Stump non avrebbe aggiunto lava di fuoco e metrica assassina alla blaxploitation di «I stand alone», ma quello regalato dal progetto Experiment è davvero un'esperienza jazz, capace di improvvissare sul fraseggio delleader, sospeso nel blues dipinto di blues.
Il fenomenale Mark Colenburg (batteria), Casey Benjamin (sassofono, voce, vocoder, keytar) e Burniss TravisII (basso) sono complici preziosi per unimmersione nella great black music di ieri e di oggi.
Jazz, ma ancor più soul e rhythm and blues e funky sono i suoni frequentati, dellhip hiop cè lo spirito e qualche ritmica più serrata e sghemba, ma anche la costruzione intorno aloop, di tastiera o vocali. Benjamin filtra e distorce la sua voce cercando ora borborigmi spaziali ora falsetti impossibili. Ma è il leader che detta la linea, trovando frasi melodicamente uncinanti o scegliendo di battere percussivamente sui tasti.
Al repertorio di propria scrittura luomo di Houston aggiunge «Tell me abedtime story» di Herbie Hancock, «Lovely day» di Bill Whiters, «Findaway» degli A Tribe Called Quest, ma anche la «bianchissima» «Smells like teen spirit» dei Nirvana, in una versione entusiasmante, quanto lontanissima dalloriginale, sospesa tra Prince e i Crusaders. Ma c'è anche «Untitled 05», uno dei sorprendenti brani del recentissimo ep di Kendrick Lamar.
Il teatro, pieno, gradisce, applaude gli assoli, tiene il tempo e canta in coro. Il jazz ritrova le sue radici fisiche, il suo ruolo primigenio di musica per il corpo, di messaggio sessuale, ma non rinuncia a raccontarsi come un linguaggio in divenire, capace di riflessioni oltre che di danze.
Mister Glasper è un riformista non un rivoluzionario, il suo sound rinuncia a ogni furore iconoclasta, conosce il senso del mainstream più del visionario apporto del p-funk, ma ha groove e melodie da vendere, sa ripartire dall'eterno tema di «When I fall in love» per arrivare a ben più moderni approdi.
E, c'è da scommetterlo, dopo questo successo, Cesare Settimo non farà fatica a riportarlo a Napoli, anche presto, anche in location numericamente più accoglienti.
Federico Vacalebre - Il Mattino.